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FOTO PIERGIANNI RIVETTI

“La fava? Non l’avevo riconosciuta…”

“E’uno dei doni di Dio che abbiamo in comune noi popoli che abitiamo sulle rive del mare nostrum. La fava faceva parte del rancio dei soldati dell’antica Roma e prima ancora, al tempo degli Egizi costruttori dei templi degli antichi faraoni, cresceva nei campi dei morti, perché incarnava l’eterna rinascita alla quale gli antichi credevano. La sua forma evocava ai loro occhi quella di un feto. E i nostri poeti cantano la dolcezza della sua pelle, paragonandola a quella delle donne…”
Ruggero si rischiarò la gola. Questa principessa lo sorprendeva continuamente:una tale libertà di linguaggio era inimmaginabile nelle signore normanne.

“Se non avete riconosciuto la fava,”proseguì lei “è perché qui la dolcezza del legume secco,cotto molto a lungo a fuoco lento,è insaporita dal gusto di una pianta…Non indovinate?”
Il conte scosse la testa, distratto da ben altro enigma. Nella sua bocca, i pezzi di carne tritata si scioglievano. Era del vitello,ma non ne aveva mai mangiato di così dolce.

“Annusate allora questo maccu, dovreste riconoscere il profumo che l’esalta” insistè Yasmina. Poichè il conte,dopo aver eseguito,scuoteva la testa e si finiva gli spiedini,lei proseguì:”Da quando avete varcato lo Stretto per percorrere in lungo e in largo la nostra isola,non vi è mai successo,la sera,di allontanarvi dal bivacco,perché stanco del fracasso del vostro esercito,del nitrire dei cavalli,dei maniscalchi che battono il metallo e degli uomini che sbraitano,e dell’odore acre del grasso che frigge?Non vi è mai successo di addentrarvi nella macchia per meditare sui vostri progetti di conquista e sulla vacuità della grandezza umana al cospetto dello sguardo di Dio?”

La mano del conte spazzò via dalla sua coscia i sei spiedini che vi erano rimasti incollati e che aveva appena ripulito del loro squisito fardello di carne tenera. Mentre le piccole punte di ferro rotolavano sul tappeto,il suo sguardo cercava quello della donna: come aveva potuto immaginare questi momenti di malinconia,il bisogno di solitudine che a volte lo assaliva alla sera della battaglia? Un sudore gli imperlava la fronte,niente affatto pesante come in guerra o nelle cerimonie,ma leggero come una rugiada e proprio questa leggerezza lo preoccupava. Dietro il velo,gli occhi di Yasmina non erano mai sembrati così grandi.Qualche cosa di impalpabile stava succedendo…Senza che se ne rendesse conto,le dita del conte si muovevano,cercando qualcosa da afferrare. La sua mano destra si strinse sul cucchiaio immerso nella zuppiera.

“E una volta là,in mezzo a questa vegetazione aspra e fitta,austera come la terra che la nutre,non avete mai respirato a pieni polmoni il respiro della montagna, per sentirvi trasportato,improvvisamente, sull’onda montante d’un profumo che emana dalla vegetazione,più dolce e vagamente simile allo zafferano?”

“il finocchio selvatico!”esclamò Ruggero posando il cucchiaio che aveva portato alla bocca; poi,schioccando la lingua per assaporare il resto di crema rimasta,ripetè. ”il finocchio…”.
“E’questo” disse Yasmina annuendo “è il segreto che la madre aveva imparato dagli abitanti dell’isola. Con qualche pizzico della selvatichezza profumata della macchia aggiunto al maccu,aveva svegliato l’appetito del suo bambino malato,ed era questo il piatto che portava ogni giorno sulla tomba del figlio morto,e con esso tutte le pietanze che voi,signore,state adesso assaggiando. In queste zuppiere potete gustare anche altre varianti della crema di fave,quella aromatizzata al sesamo… Ma per tornare alla povera madre,in realtà,lei non aveva affatto perduto la testa.

“Ogni volta che entrava nel grande cimitero dove sorgeva la tomba del figlio,seguita dall’eunuco e dalle serve,sotto il sole abbacinante che faceva scintillare il candore delle tombe,si percepivano dei rumori soffocati di corse,bisbigli,risatine. Un giorno,mentre era in cammino verso il campo dei morti,aveva colto un melograno da un bell’albero i cui rami traboccavano sulla strada,dicendosi che l’avrebbe aggiunto alle offerte per il figlio. Poi al ritorno,si era accorta di aver dimenticato di deporre il frutto e,dicendo ai servitori di aspettarla,era tornata indietro. Al suo arrivo davanti alla tomba dove poco prima aveva deposto il banchetto funebre,un nugolo di fanciulli cenciosi si era disperso,fuggendo in tutte le direzioni.

“Il cimitero era diventato la città dei più poveri tra i poveri di Palermo.Delle famiglie intere vi si erano sistemate alla bell’e meglio,vivendo al riparo dei tetti dei mausolei,dissetandosi alle innumerevoli fontane. La madre comprese che subito dopo la sua partenza quei piatti che i primi giorni aveva preparato in memoria del figlio venivano immediatamente afferrati da manine sporche e portati via per nutrire numerose bocche. Ecco perché all’indomani ritrovava scodelle e piatti così accuratamente ripuliti… Allora,la donna cucinò ancora di più,e sempre i piatti preferiti dal figlio scomparso,che lei arricchiva senza sosta:il maccu; le arancine,queste morbide palle di riso di cui ne avete gustata una dozzina con la mia più grande gioia;gli spitini,questi spiedini in cui la tenerezza della carne di vitellino viene esaltata da quella del pane bagnato nel latte che l’ha nutrito…”

Il conte considerò con soddisfazione le trenta bacchette di ferro allineate su un angolo della tavola, nude e brillanti, spolpate dai suoi denti fino all’ultimo succulento resto. Poi, con un grande sospiro rassegnato, tese un calice d’argento verso l’acquamanile pieno d’acqua. Un sevitore si precipitò, ma Yasmina lo fermò con un gesto rapido e leggero della sua mano affusolata. Chinandosi per servire il suo ospite, il velo che copriva la sua fronte scivolò e prima che le sue dita inflessibili rimettessero a posto il tessuto, il conte ebbe tempo di scorgere uno zigomo alto e liscio, ma talmente liscio a vedersi! Solo ad immaginarne il contatto, Ruggero sentì un’ingombrante rigidità sotto la tunica che l’obbligò a cambiare posizione.

Ma persistendo l’imbarazzo, per nasconderlo prese tre o quattro specie di frittelle molto piatte dal colore dorato. Gli bruciavano le dita e la lingua, erano salate e pepate e richiedevano molta saliva ma alla fine una tiepida pienezza si spandeva, un odore un po’ terroso, come il profumo riconfortante del pane caldo mescolato a quello dell’humus.

“Queste sono le panelle,” disse Yasmina “impastate con la farina di un’altra di queste universali benedizioni di Dio: i ceci. Non hanno solo dato il nome al grande Cicerone: i ceci nutrono da secoli gli abitanti di tutto il mare nostrum, rendendoli però, un tantino ventosi.”

Le pieghe agli angoli degli immensi occhi erano provocate da questa ardita sconvenienza appena pronunciata, o invece si era accorta dello stato del suo ospite? La confusione di Ruggero non fece che aumentare  quando lei proseguì:

“Ma non si tratta che di una delle tre grandi virtù che, secondo il grande Oribasio, i ceci trasmettono all’uomo, con la loro umidità che accresce la quantità del seme, con il loro calore che eccita il desiderio.”

Ciò dicendo, sollevò uno degli acquamanili e riempì un boccale con un lungo getto di un liquido bianco. Il conte tese la mano verso il polso di Yasmina ma le sue dita si chiusero intorno al recipiente che lei vi aveva fatto scivolare.

“Dopo il calore pepato delle panelle, la dolcezza del latte di mandorla preparerà il vostro palato per quel che segue” disse lei, saccente, riprendendo poi il tono del racconto:

“Per settimane, mesi, anni, la madre continuò a nutrire delle famiglie intere dei più poveri tra i poveri e la tomba di suo figlio divenne l’oggetto di una venerazione sempre più grande… Al punto che, dopo la sua morte, le ricche famiglie di Palermo presero il suo posto, continuando a portare sulla tomba del figlio le pietanze che lei aveva cucinato per così tanto tempo. Si dice che per lei , Allah abbia fatto un’eccezione e che, benché donna, abbia potuto accedere al paradiso e ritrovare il suo figliolo. Ma i dotti dichiarano questa ipotesi sacrilega.

“Comunque la cena che vi ho servito oggi è il frutto di  anni di perfezionamento, come se migliorando ogni giorno un po’ più i suoi piatti,la madre avesse voluto nutrire e perfezionare sempre più l’espressione della tenerezza che lei provava per tutti questi bambini,poveri tra i poveri,e attraverso di loro per suo figlio…Questo affinamento dei piaceari del palato,questa ricerca accanita del giusto equilibrio tra gli ingredienti vi parlano dunque d’amore… dell’amore di una madre per suo figlio”concluse frettolosamente Yasmina.

Con un elegante movimento delle reni,indietreggiò senza alzarsi:il conte pendeva sempre di più verso di lei e il suo respiro da fiera le aveva sfiorato la fronte. Ruggero raddrizzò il busto. La sensazione di qualcosa di oscuro aumentava. Le donne che non erano del suo stesso rango e che gli piacevano,il signore normanno aveva l’abitudine,come tutti i sui pari,di prenderle,goderne e non pensarci più. Quanto alle gentili damigelle,spose e sorelle di quelli con chi o contro cui gareggiava,era abituato alla frattura assoluta tra i due mondi,quello dei sagrati delle chiese e delle sale di rappresentanza dove non rivolgeva loro che delle frasi cerimoniose regolate dai rapporti di vassallaggio e dall’importanza dei feudi che rappresentavano,e quello dei corridoi bui,dove gli incontri brutali e rapidi si svolgevano quasi senza parole. Aveva sentito parlare di nuovi usi,nati alla corte di Tolosa,che spingevano i nobili dei due sessi a intrattenersi a lungo su una certa cosa che chiamavano “l’amore” con casta elevazione d’animo. Ma non aveva mai visto niente di simile al comportamento di questa donna che,con una riservatezza estrema nei modi e nei discorsi fioriti dove traspariva un’erudizione molto superiore alla sua,parlava senza ritegno delle realtà più triviali della carne,e dei suoi piaceri. E mentre il desiderio di sollevarle i veli aumentava sempre più,egli provava un sentimento finora sconosciuto. Il conte di Sicilia scopriva la timidezza.

Fu con orecchio distratto che ascoltò dapprima le parole di Yasmina,afferrando le fette oleose e dorate che pescava in un piatto di terracotta e che andava inghiottendo senza pensarci:era del “caciocavallo”,chiamato così perché con il latte di una razza di vacche allevate a Modica,vicino Ragusa,si fabbrica questo formaggio,che si sospende “a cavallo”da una parte e dall’altra di un bastone,dopo avergli dato la forma di due sacche-come quelle di uno stallone,aggiunse Yasmina come se niente fosse,provocando in Ruggero un’inarrestabile tosse. Mentre egli si riprendeva,lei gli raccontò che un certo argentiere di Palermo,un collega del vecchio Abu,aveva avuto dei rovesci di fortuna che l’avevano condotto quasi alla rovina. Il vicinato sino ad allora si era goduto gli  odori delle carni cotte a fuoco lento provenienti dal suo retrobottega, perché la sua unica occupazione,al di là del suo mestiere,era cucinare. Adesso voleva ingannare la gente sulle sue condizioni. Per continuare a spandere dei profumi allettanti,l’argentiere aveva inventato una ricetta dove la carne,troppo cara,era rimpiazzata dal formaggio e dove entrava in gioco la magia dell’aceto e dell’origano. Così era nato il “caciocavallo all’argentiera”.

In seguito, per ciascuno dei piatti di cui Ruggero si rimpinzava con crescente frenesia, pescando a caso sulla tavola quello che i servi portavano senza sosta-ravioli di ricotta fritti,biancomangiare,crocchette di latte, frittura di neonata,dolci di pasta di mandorle, polpette di melanzane, pignolata al miele-Yasmina raccontava un aneddoto,facendo ogni volta notare come il piatto si accordasse ai sentimenti di dolcezza e di delicatezza che circondano questo pasto dell’amore materno. Ma a partire dalle crocchette di latte , Ruggero aveva deciso di misurarsi con la sua ospite sul campo di battaglia delle leggende.

Nella sua giovinezza, era stato cullato dai racconti delle prodezze dei Cavalieri della Tavola Rotonda, di re Artù, della Fata Morgana e del mago Merlino e ne seminò alcune briciole con una vivacità da cantastorie che egli stesso non conosceva.

“Echi delle gesta di questi valorosi guerrieri cristiani sono giunti da tempo sulla nostra isola…” disse Yasmina mentre Ruggero, da un po’, non parlava più, sdraiato su cuscini davanti a piatti vuoti. “D’altronde, sui fianchi del grande vulcano ad oriente dell’isola, nella montagna che sputa fuoco, che certi chiamano Etna, i catanesi chiamano Mongibello e noi, semplicemente, Djebel, si trova la caverna da cui si accede al reame di Avalon dove re Artù vive ancora…Lo ignoravate? Dovreste almeno sapere che la Fata Morgana appare spesso nell’aria, al di sopra dello stretto di Messina, spaventando i viaggiatori che si trovano sulle coste e rassicurando i pescatori che la conoscono bene e sanno che la sua comparsa annuncia il bel tempo.”

“No no ignoravo tutto ciò. Ma mi racconterete voi” disse Ruggero con voce malferma.
Era colpa del suo corpo schiacciato dalle fatiche di una dura giornata e appesantito da tanto cibo o piuttosto dal suo spirito assalito da una gioia sconosciuta? Fatto sta che, venuto fin lì deciso a rapire la virtù della sorella di Omar, il conte si sentiva adesso in preda ad una strana paralisi.

“Non ora” disse Yasmina mostrando il chiarore apparso alle finestre, come dita di rosa aggrappate ai davanzali. “L’aurora arriva. Presto sarà per me l’ora della prima preghiera. E i vostri doveri di sovrano vi reclamano… Ma questa sera se volete…”

Le ultime parole avevano tremato nella sua voce, risvegliando il ricordo del lamento voluttuoso, che dimorava nel suo canto quando il conte si era avvicinato al palazzo dei Khalid.

“Questa sera…?”

“Questa sera. Sarò infinitamente onorata se consentirete a ritornare a gustare la mia cucina ed ascoltare i miei umili racconti con lo stesso orecchio benevolo di questa notte.”

Con un lembo della tovaglia,il conte si pulì la bocca. Un servitore si precipitò,portando una bacinella di ceramica bianca a decori blù cobalto,un grande acquamanile d’acqua fresca e un panno di cotone ricamato. Yasmina prese bacinella e acquamanile,Ruggero capì e avvicinò le dita. L’acqua gli sembrò deliziosamente fresca,e bollente la falange della principessa che egli sfiorò afferrando il panno.

“Se ritornerete”annunciò lei con breve riso che allentò un po’ la tensione”l’ordine delle portate sarà diverso. Seguendo l’insegnamento del grande maestro cordovano Abu al-Hassan detto “il Merlo”,il quale eccelle tanto nelle arti della musica e del canto quanto in quelle della tavola, i piatti non saranno serviti tutti insieme come questa notte,ma l’uno dopo l’altro,cominciando dalle zuppe per finire con i dolciumi. E questa notte,non è esattamente la mia cucina che voi avete gustato,anche se ho tagliato i legumi e le carni e impastato e sorvegliato le cotture e l’olio delle fritture… Infatti ho lavorato sotto la direzione di un’altra persona,che si può considerare come la vera maestra di questo pasto…non indovinate?”

Il conte sospirò. Sapeva ciò che l’attendeva.

“Vostra madre?”suggerì.

“Esatto. E’lei che ha composto il pranzo,ci teneva che venisse servito secondo l’antica tradizione,diceva che voi normanni mangiate così…”

“Sarò onoratissimo di scoprire anche i vostri talenti” disse il conte,alzandosi e cercando con lo sguardo la sua cintura e la spada,che un servitore si affrettò a portargli.

Forse fu l’effetto della fatica il motivo per cui,mentre si cingeva,gli scapparono queste parole:”Scoprire i vostri talenti,sì,tutti i vostri talenti”.

Nei grandi occhi blu,delle nubi grigie si addensavano. Per la prima volta gli sembrò di scorgere in lei un’esitazione.

“Però…”disse Yasmina.

“Si?”

In piedi davanti alla tavola e alla donna inginocchiata conte si sentiva vacillare. Sapeva ciò che stava succedendo,sapeva ciò che avrebbe risposto.

“Però,se ucciderete mio fratello,presa dai doveri funebri,non potrò cucinare.”

Ruggero,conte di Sicilia, guardò la figura avvolta nei veli e lo sguardo alzato su di lui… Si sentì ondeggiare, strinse forte l’impugnatura della sua spada.

“Ben detto”disse “Soprassiedo fino a domani sull’esecuzione di Omar:”

Solo un leggero sussulto tradì l’emozione di Yasmina. Con un guizzo superbo, la massa corporea del conte si raddrizzò, gonfiando il petto.

“Ma pongo tre condizioni “disse lui.”Innanzi tutto,mi permetterete di offrirvi alcune giare di vino per accompagnare il pasto. Poi, mi auguro che infrangiate gli usi del vostro paese, e che dividerete cibo e bevande con me.”

Le pieghe all’angolo degli occhi erano riapparse. Yasmina si inchinò.
“Sono la vostra umile serva,signore. I vostri desideri saranno rispettati.”Ruggero tossì,stupendosi tra sé e sé di questa tosse improvvisa.

“E inoltre…”disse “desidero vedere…hum, desidero che scopriate questa bocca da cui escono tante meraviglie.”

Yasmina s’inchinò di nuovo senza dire una parola. Nel firmamento del suo sguardo,restava appena un po’ di grigio.
Fuori,camminando nell’erba dell’aurora,il conte si accorse che durante la notte era piovuto. L’aria era fresca.

Mentre stava per attraversare il ponte per raggiungere gli uomini che sonnecchiavano sui loro cavalli o in piedi,appoggiati alle loro lance ai bordi della strada,inciampò su un individuo cencioso che veniva avanti,piegato in due,il naso quasi per terra.

“Giufà! Che fai qui,animale?”

“Cerco, signore, cerco…”

“E cosa cerchi?”si informò il conte, assalito improvvisamente da un’allegria che non era commensurabile al divertimento che gli procurava il buffone.

“Cerco l’Amore Perfetto”mormorò il brav’uomo,allontanandosi. L’ho sepolto qui da qualche parte,c’era un segno. Ma non lo trovo più. Il segno è scomparso.”

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